Ci sono posti cosi’ bui e tetri da non lasciar trapelare un filo di luce, una speranza, luoghi del cervello nei quali si annidano e alimentano follia e genialità, ma anche depressione, debolezze e manie nichiliste.
La parabola del magnetico Ian Curtis, frontman, poeta dei Joy Division mi affascina sempre, mi dedico spesso all’ascolto della sua voce cupa, misteriosa, ogni passaggio mi regala sfumature differenti in grado di comprendere il personaggio decadente, un’anima avvolta dalle atmosfere dark e punk protagoniste nel corso della sua breve esistenza, 23 anni prima di arrendersi alle paure, al suo “grande male”, sconfitto dalla paranoia e con il cuore in frantumi.

Artista dotato di estrema sensibilità, scrittore di versi oscuri, claustrofobici, la cui presenza disagiata caratterizza e marca la direzione artistica della band, testi pregni di sofferenza e disperazione supportati dalla ritmica leggendaria di Peter Hook al basso e Stephen Morris alla batteria, il tutto impreziosito dalla sferzate di chitarra di Bernard Sumner. 

Un quartetto capace di ipnotizzare un’intera generazione di musicisti, modellare e plasmare un genere, un suono attraverso le proprie opere. Tutto il mondo malato del gruppo inglese lo si trova ascoltando il loro LP di debutto, Unknown Pleasures, primo ed ultimo lavoro pubblicato con Ian Curtis in vita, un monolite di sonorità capaci di coltivare una leggenda, creare proseliti tra i più scettici, il capolavoro della band che si prende l’onere e l’onore di rappresentare la massima espressione della neonata corrente post-punk, gothic-rock, folgorante trascina la mente dell’ascoltatore nelle segrete dell’inconscio, mette brutalmente a nudo l’introverso Curtis che canta il suo dramma esistenziale senza scappatoie, le stesse che invece prende decidendo di porre fine al suo calvario poco prima di pubblicare il seguito di Unknown Pleasures, Closer, uscito postumo.

Il lavoro d’esordio dei quattro si sviluppa e prende forma nel pieno del fermento musicale britannico, punk e soprattutto new wave della quale vengono eletti a rappresentanti più estremi e credibili, luminari dai quali prendere spunto.

Mentre il vinile viene solcato dalla puntina si riescono a cogliere l’influenza di Bowie sui  Joy Division, il synth utilizzato magistralmente, alienazione e presagio, un manuale a 360° sulla convivenza con demoni e sconfitte che inchiodano l’uomo al proprio destino, in mezzo al nero più profondo sbucano anche episodi poetici illuminanti, meravigliosamente essenziali, incalzanti, l’incedere dei riff di chitarra manda l’opera in orbita e la sua scia segna profondamente la storia della musica.

Ogni giro del vinile è un tuffo nell’oscurità, una presa di coscienza che muta ascolto dopo ascolto e questo rende il capolavoro dei Joy Division  pezzo insostituibile della collezione di ogni appassionato di musica.

La mitologia che si crea intorno alla riuscita di un album viene rafforzata in maniera marcata grazie all’impatto che riesce ad avere la copertina e l’artwork di Unknown Pleasures è tra i più iconici di sempre, il nero lucubre che domina mette in risalto il volto più dark
dei Joy Division mentre la supernova raffigurata al collasso esalta le deviazioni esistenziali dei quattro componenti, soprattutto di Ian che crolla senza combattere, senza gioia, consapevole che l’amore lo farà a pezzi.

Il debutto discografico a 33 giri dei ragazzi di Salford, grigia cittadina della contea di Manchester è pubblicato dalla Factory Records il quindici giugno 1979 diventando presto il Santo Graal del post-punk da cui abbeverare il desiderio di eterno, un lavoro maniacale nei suoni, avveniristico, le liriche personali di Curtis solcano la psiche umana, scavano nell’intimità e rendono papabile l’estrema sofferenza del cantautore, la sua odissea vitale, la rabbia che sfocia in stati d’animo non ancora rassegnati ma vicini al tracollo.

Dieci pezzi sinceri, eterni.

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Una replica a “Joy Division – Unknown Pleasures”

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